The Bad Batch: Recensione del film di Ana Lily Amirpour a Venezia 73





google_ad_client = “ca-pub-2863930932264280”; google_ad_slot = “9391970030”; google_ad_width = 336; google_ad_height = 280; Due anni fa, Ana Lily Amirpour debuttò con l’apprezzato A Girl Walks Home Alone at Night, descritto come “il primo western iraniano con vampiri”. Oggi, la regista di origini iraniane, nata in in Inghilterra ma presto trasferitasi negli Stati Uniti, porta in concorso a Venezia 73 il post-apocalittico The Bad Batch. La premessa è, come da copione più tradizionale, quella di un desertico mondo allo sfacelo in cui vivono i reietti della società, costretti alle azioni più barbare per sopravvivere. Gettata in questa realtà per un crimine sconosciuto, la nostra eroina (Suki Waterhouse) si inizia il suo cammino per raggiungere Comfort, un’oasi corrotta in cui sono radunati molti scarti del genere umano, il cosiddetto Lotto Cattivo; appena mossi i primi passi, la ragazza incontrerà tuttavia una comunità di cannibali che in lei vedono l’ennesimo pasto giornaliero. Non si può dire che il secondo lavoro della Amirpour manchi di fascino: in una commistione di generi, in cui è facile ritrovare anche i temi del western, The Bad Batch rapisce inizialmente per il suo voler essere provocante, esplicito, bizzarro. In questo universo in cui, letteralmente, canis canem edit, vediamo collidere personaggi astrusi, come il palestrato Jason Momoa, pronto a uccidere senza remore ma amorevole verso la figlia e dotato di spiccato talento artistico, o il barbone Jim Carrey, lontano dalle comunità nel deserto e dalle loro regole ma più di una volta angelo custode per i protagonisti

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Pubblicato il: 7 Settembre 2016

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